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18.09.2020

COVID-19 e interruzione del cash flow: le soluzioni prospettate dalla Suprema Corte

L’emergenza sanitaria, tutt’ora in atto, ha chiamato il nostro ordinamento a confrontarsi con molteplici problematiche, emerse proprio a fronte di uno degli effetti più importanti di tale situazione, ossia l’interruzione del cashflow. Molte di queste problematiche emergono nella fase esecutiva dei contratti c.d. sinallagmatici, che trovano la propria ragione d’essere nell’equilibrio che scaturisce dall’incontro delle volontà dei soggetti stipulanti.

I problemi sorgono nel momento in cui l’equilibrio sopradetto viene spezzato e una delle prestazioni diviene sproporzionata; allora, ecco l’intervento del Legislatore che ha predisposto una serie di norme emergenziali e transitorie.

Ma si tratta di provvedimenti idonei a fare fronte alla situazione reale ?

Se ne è occupata, con la relazione n. 56 dell’8 luglio 2020, la Suprema Corte. 

La stessa ha, prima di ogni altra cosa, volto lo sguardo all’art. 1463 c.c.; questo disciplina la risoluzione per impossibilità sopravvenuta. Tale normativa, però, non trova grande spazio di applicazione nella tematica che qui occupa, in ragione del fatto che la prestazione di concessione del bene in godimento rimane possibile e continua ad essere eseguita.

Sarebbe quindi l’art. 1467 c.c. a trovare maggiore spazio di applicazione con riferimento ai contratti di locazione. L’intervento di questo articolo è richiesto quando quell’equilibrio, citato in precedenza, viene meno e la sproporzione dei valori delle prestazioni diviene tale per cui una delle due non trovi più sufficiente remunerazione nel sinallagma contrattuale. Detto ciò, anche questa norma dimostra fin da subito una sua grande lacuna, ossia la sua propensione demolitoria e non conservativa del contratto; l’applicazione di tale rimedio comporta la rimozione del vincolo e non il riequilibrio delle prestazioni. Tale ultima soluzione sarebbe, invece, quella più adatta per il normale svolgimento di un contratto in essere, proprio perché la demolizione dello stesso non sembra essere una risposta soddisfacente a fare fronte all’emergenza.

Neanche il ricorso al concetto di impossibilità della prestazione è ritenuta efficace; questo perché in tale concetto non trova spazio la c.d. impotenza finanziaria, infatti la difficoltà monetaria causata dai rischi che ciascun debitore si è autonomamente assunto non può riversare i suoi effetti sulla sfera economico-giuridica del creditore. 

Così, battute le strade “codicistiche”, la Cassazione, dato atto delle esigenze attuali, che sono quelle di mantenere in vita il contratto e non di demolirlo, analizzando il rimedio congegnato dall’art. 1467 c.c., ha configurato l’inadeguatezza dello stesso in quanto non riconosce la possibilità di richiedere la revisione del contratto divenuto non più conveniente per la parte che, in teoria, avrebbe meno interesse al riequilibrio, poiché da esso avvantaggiata.

La Corte di Cassazione ha preso le mosse da uno dei principi cardine del nostro ordinamento, ossia la buona fede, tant’è che: «il dovere di correttezza contrattuale non è soltanto una clausola generale destinata a regolare le trattative, la conclusione, l’interpretazione e l’esecuzione del rapporto, ma è anche una fonte di integrazione del contratto, in quanto richiamata dall’art. 1374 sub specie di legge». È nella fase esecutiva del contratto ex art. 1375 c.c. che la portata del concetto di buona fede prende posizione, prevedendo la rinegoziazione del contratto come iter necessario in presenza di circostanze ed esigenze sopravvenute. Ciò detto, la clausola generale di buona fede dovrebbe divenire garante di un comportamento corretto nella fase esecutiva del contratto.

La rinegoziazione diventa così un passaggio obbligato, salvaguardando anche il piano dei costi e dei ricavi contrattualmente pattuito, con la conseguenza che chi si sottrae al tentativo di ripristinarlo commette una violazione del regolamento contrattuale.

La Cassazione detta un significato ben preciso di “rinegoziare”, ossia «vuol dire impegnarsi a porre in essere tutti quegli atti che, in relazione alle circostanze, possono concretamente consentire alle parti di accordarsi sulle condizioni dell’adeguamento del contratto, alla luce di modificazioni intervenute».

Ebbene, sarà il contraente svantaggiato a chiedere alla controparte l’adeguamento del contratto, che dovrà, a sua volta condurre la rinegoziazione in modo costruttivo. I criteri che devono guidare i comportamenti dei soggetti durante tutta la rinegoziazione sono dettati dalla clausola generale di buona fede ex artt. 1175 e 1375. 

Dopo avere descritto i criteri che devono guidare i comportamenti delle parti lungo tutta la fase di rinegoziazione, la Cassazione passa a considerare la possibilità di un intervento eteronomo del giudice nel caso in cui il rapporto sia divenuto iniquo. La Suprema Corte sulla tematica ha affermato che «qualora si ravvisi in capo alle parti  l’obbligo di rinegoziare il rapporto squilibrato, si potrebbe ipotizzare che il mancato adempimento di esso non comporti solo il ristoro del danno, ma si esponga all’esecuzione specifica ex art. 2932 c.c.». Così al giudice spetterà il compito di sostituirsi alle parti, pronunciando una decisione che sia sostitutiva della rinegoziazione non avvenuta, modificando così il contenuto del dettato contrattuale originario secondo elementi rigorosamente espressi dal medesimo regolamento negoziale.

Un esempio di intervento eteronomo da parte del giudice, in sostituzione delle parti, si è realizzato con l’Ordinanza del Tribunale di Roma del 27 agosto 2020; in tale caso, il Giudice ha accolto la domanda cautelare del soggetto conduttore, sostituendosi poi alle parti in relazione alla riduzione dei canoni di locazione. Così, il Giudice ha stabilito una riduzione pari al 40% per i mesi di aprile e maggio e al 20% per i mesi da giugno 2020 a marzo 2021.  

Da ultimo, la Suprema Corte si preoccupa di analizzare anche un altro aspetto della questione, ossia il caso in cui i soggetti non rispettino quanto disposto dal Giudice; allora, la Corte risolve il problema da un angolo visuale diverso, in quanto, se da un lato il ricorso all’art. 2932 c.c. non garantisce che la parte che subisce la decisone del giudice adempia la nuove condizioni stabilite, dall’altro, consente, nel caso in cui il soggetto si rifiuti di rispettarle, una commisurazione agevole e maggiormente attendibile del danno risarcibile.


Postato da: Trainee Emanuele Azzolina

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