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12.05.2020

Mancata indicazione della commissione implicita e/o del mark to market: il contratto derivato è nullo

Molto spesso, nell’ambito della negoziazione per la concessione di un finanziamento (ma anche a fronte di finanziamenti preesistenti, considerati uti singoli o nella loro complessità), l’imprenditore viene sollecitato dalla Banca a sottoscrivere un prodotto finanziario avente la (dichiarata) finalità di coprire il soggetto finanziato dal rischio di fluttuazione del tasso di interesse, variabile, del finanziamento stesso.

Si tratta dell’Interest Rate Swap, di frequente sottoposto all’attenzione dei giudici italiani poiché foriero di ingenti esborsi per le imprese.

 

Nel suo nucleo essenziale, l’IRS è un contratto che prevede che, a scadenze periodiche predeterminate, le parti (il cliente, da un lato; la banca, dall’altro) si scambino dei pagamenti di interessi calcolati su una somma di denaro detta nozionale e pari o al capitale del finanziamento da «coprire» o al complessivo ammontare dell’esposizione debitoria dell’impresa nei confronti del sistema bancario. Uno di detti flussi di pagamento (generalmente, il flusso che è chiamato a pagare l’impresa) è basato su un tasso di interesse fisso; l’altro (quello generalmente pagato dalla banca), invece, su un tasso di interesse variabile.

In questo modo, l’imprenditore che, in relazione ai finanziamenti in essere, è assoggettato alle oscillazioni dei tassi di interesse variabili risulta per l’appunto coperto rispetto al rischio di innalzamento dei medesimi. E infatti, se i tassi di interesse dovessero alzarsi, egli pagherebbe sì maggiori interessi in relazione al finanziamento sottostante, ma sarebbe «compensato» dall’incasso dei flussi positivi che il derivato generebbe. Al contrario, se i tassi di interesse dovessero abbassarsi, sarebbe l’imprenditore a dovere corrispondere una somma di denaro alla banca; in via correlata, però, per l’imprenditore diminuirebbe il costo del finanziamento sottostante.

 

Siffatta struttura rende il prodotto finanziario in questione, prima facie, davvero appetibile per le imprese: sono numerosi, infatti, gli imprenditori che, nel corso degli anni, hanno concluso operazioni di tale tipo.

Sennonché, non di rado i contratti derivato sono stati posti, dopo avere generato una nutrita serie di differenziali negativi per le imprese, al giudizio delle Corti, di legittimità e di merito, italiane. Tra i plurimi profili dalle stesse esaminati, verranno qui presi in considerazione, in ragione di una recente pronuncia del Tribunale di Ancona, quelli che attengono alla nullità del derivato per mancata indicazione della commissione implicita e per indeterminatezza del mark to market.

 

Al momento della stipula, il valore del derivato può essere o nullo, perché le prestazioni delle parti sono agganciate al livello corrente dei tassi di interesse, o negativo per una delle parti, perché uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello dei tassi di mercato: si parla nel primo caso di contratto par, nel secondo caso di contratto non par.

In quest’ultima ipotesi, i termini finanziari della transazione vengono (rectius, dovrebbero essere) riequilibrati attraverso il pagamento di una somma di denaro, pari al valore negativo del contratto, in favore della parte che accetta condizioni più penalizzanti: tale pagamento, che la Suprema Corte ritiene essere l’«oggetto di un effettivo finanziamento iniziale da restituire» (Cass. 10 gennaio 2019, n. 493), prende il nome di up front.

 

Molto spesso, tuttavia, gli strumenti finanziari in questione vengono trattati non all’interno di un mercato ufficiale, ma su piattaforme di scambio non regolamentate (c.d. OTC), ove il differenziale positivo fra prezzo di negoziazione e prezzo teorico di mercato garantisce il profitto degli intermediari finanziari.

Così, sovente gli intermediari, pur confezionando e proponendo un contratto non par, non riconoscono, in favore dell’impresa, alcun up front; tale circostanza, non menzionata nel contratto e non conoscibile dal cliente, fa sì che, nella sostanza, l’intermediario applichi una commissione implicita.

È evidente che la mancata «esplicitazione» di tale commissione incide sulla razionale e misurabile assunzione dell’alea contrattuale, che è causa del contratto di IRS.

Si badi bene: nulla quaestio circa la legittimità di un margine di utilità dell’intermediario che predispone l’operazione; ma egli deve renderne edotte tanto le controparti qualificate tanto quelle non qualificate affinché, da un punto di vista civilistico, il contratto possa ritenersi valido. In effetti, come si è rilevato in dottrina, «i costi impliciti, quale iniziale  valore negativo del derivato, meritano l’appellativo di costi occulti non perché incomprensibili all’investitore … [ma] in quanto non sono stati separatamente convenuti» (Pagliantini, I costi impliciti nei derivati tra trasparenza e causa, in Swap tra banche e clienti, Milano, 2014, p. 222).

 

Muovendo da tale assunto, il Tribunale di Ancona, con sentenza n. 588 dell’8 maggio 2020 (qui allegata), ha accolto la domanda di nullità del contratto derivato, ex artt. 1418, 1322, comma 2, e 1346 c.c., per mancata indicazione della commissione implicita formulata dal nostro Studio nell’interesse della Società stipulante in bonis, prima, e dal Fallimento della medesima, poi. Contestualmente, e per l’effetto, il Tribunale ha condannato la Banca convenuta alla restituzione, in favore del Fallimento, «dei differenziali negativi corrisposti nel tempo dall’investitore».

 

Questa la parte motiva di immediato interesse: «pur ammettendo l'esistenza e la regolarità di contratti IRS con upfront, la mancata indicazione delle commissioni o dei costi impliciti viene considerata elemento che concorre alla concreta definizione dell'alea contrattuale che è causa del contratto; pertanto, la sua mancata indicazione non può semplicemente trovare ristoro nella tutela risarcitoria in quanto, va ad incidere sugli elementi strutturali ed essenziali del contratto, rispetto ai quali è imprescindibile l'incontro della volontà dei contraenti, con conseguente nullità dello stesso».

 

Con la stessa pronuncia, il Tribunale di Ancona ha pure accolto la domanda di declaratoria della nullità del contratto, ex artt. 1418, 1322, comma 2, e 1346 c.c., per indeterminatezza delle pattuizioni in punto di «modalità di smobilizzo», ovvero, secondo la definizione della comune prassi degli intermediari finanziari, delle previsioni in punto di calcolo del mark to market nel caso di recesso dal contratto di una delle parti.

 

In effetti, il contratto derivato deve indicare, e in maniera univoca, le modalità di calcolo del «prezzo, dettato dal mercato in un dato momento storico [quello in cui il cliente sceglie di recedere] , che i terzi sarebbero disposti a sostenere per subentrare nel contratto stesso» (così Cass. civ. n. 14059/2016), onde evitare che, al momento della richiesta di recesso, la Banca possa utilizzare, in maniera arbitraria, la modalità di calcolo che preferisce.

 

Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, e recepito dalla pronuncia del Tribunale di Ancona in discorso, l’«inadempimento dell’obbligo di indicazione del mark to market sin dalla fase originaria della stipula» determina la nullità del derivato.

Questo, perché il «costo di smobilizzo» è, in sostanza, «una particolare espressione dell’oggetto del contratto, destinata a operare con riferimento ad alcune vicende contrattuali delle parti predeterminare (ossia la scelta di una di esse di dare chiusura anticipata al rapporto, piuttosto che altri casi di necessaria interruzione anticipata) … -- In tali casi, quindi, l’oggetto del contratto, costituito dal differenziale dei contrapposti flussi finanziari, viene determinato attraverso il Mark to market, il quale, rappresentando una sua specifica modalità di espressione, è esso stesso l’oggetto del contratto. -- Ciò appare indirettamente confermato dallo stesso legislatore, là dove all’art. 2427 bis c.c. ha previsto che le società debbano nella nota integrativa di bilancio indicare il fair value del contratto derivato, cioè il valore in sé del contratto (ossia l’MtM); tale previsione normativa, infatti, conferma come il Mark to Market, lungi dal configurarsi solo come elemento eventuale del contratto, sia piuttosto una componente necessaria del suo oggetto» (così, inter alia, Trib. di Milano, 9 marzo 2016).

 

Il tutto, a prescindere – ricorda il Tribunale di Ancona – dalla circostanza, fatta valere dalla Banca convenuta,  per cui «le parti avevano dato regolare esecuzione al contratto e, pertanto, l'attrice di fatto non aveva avuto necessità di conoscere il Mtm». E infatti, da un lato «la sanzione della nullità rende il contratto invalido ab origine in quanto la mancanza di uno degli elementi essenziali del contratto lo infirma nella sua stessa struttura, è quindi irrilevante la sua effettiva esecuzione»; dall’altro, «la mancata formulazione del Mtm, con conseguente impossibilità di valutazione della convenienza nella chiusura anticipata del rapporto, potrebbe effettivamente aver inciso sulla volontà di parte attrice sollecitandola all'esecuzione».


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